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Comunità Queer a Hollywood, l’acceso dibattito sui ruoli
Nell’industria cinematografica vi è un dibattito controverso riguardo la rappresentazione dei personaggi Queer: è giusto vengano interpretati da attori etero?
Negli anni Novanta, c’era davvero poco spazio nei cast per le persone Queer, che rivestivano principalmente ruoli marginali. Si trattava per lo più di ruoli stereotipati, come il “migliore amico gay” della protagonista eterosessuale, che più che rappresentare correttamente la comunità LGBTQIA+, contribuivano a una visione caricaturale della comunità Queer, tra sorrisi forzati e frustrazione.
Oggi, la situazione sta lentamente cambiando. I personaggi Queer non sono più relegati ai margini della narrazione, ma iniziano a essere al centro delle storie, ricoprendo ruoli complessi e sfaccettati che catturano le sfumature della loro esperienza. Persone Queer sono sempre più presenti nei film candidati agli Oscar o nelle serie di punta su piattaforme come Netflix. Le storie LGBTQIA+ stanno finalmente trovando una voce. Ma sorge una domanda cruciale: chi sta raccontando queste storie?
In tre casi su quattro, i ruoli Queer continuano ad essere affidati a attori eterosessuali e cisgender. È una tradizione che persiste da decenni, un fenomeno visibile sin dai tempi di Philadelphia (1994), quando Tom Hanks vinse l’Oscar come miglior attore per il ruolo di Andrew Beckett, un uomo gay malato di AIDS.
Il dibattito incentrato su questo tema ha visto coinvolti diversi attori nel corso degli anni. Prendiamone in esempio alcuni.
Scarlett Johannson e la presa di posizione
Negli ultimi anni, sempre più attori e attrici cisgender e eterosessuali hanno iniziato a fare un passo indietro rispetto ai ruoli queer che avevano interpretato in passato, o addirittura a rifiutare nuove offerte di questo tipo. Un esempio significativo è quello di Scarlett Johannson, che nel 2018 ha deciso di abbandonare il progetto Rub & Tug, in cui avrebbe dovuto interpretare Dante “Tex” Gill, un uomo transessuale e criminale attivo negli anni ’70.
Inizialmente, Johannson aveva accettato il ruolo dichiarando che, come attrice, dovrebbe essere libera di interpretare ogni persona, ogni albero, ogni animale, perché è ciò che il lavoro attoriale richiede. Tuttavia, nonostante le sue buone intenzioni, l’affermazione della Johansson ignorava un problema più profondo e strutturale all’interno dell’industria cinematografica e televisiva, che va ben oltre il mestiere dell’attore.
Il commento dell’attrice non teneva conto del fatto che la rappresentazione queer sullo schermo, in particolare per i ruoli trans, è stata storicamente problematica e limitata, lasciando ben poco spazio agli attori realmente queer per interpretare le proprie esperienze e identità.
Il pentimento di Johannson è solo uno dei tanti casi recenti in cui attori cis-het hanno rivalutato la loro partecipazione a film e serie che trattano di storie LGBTQIA+.
The Danish Girl
Un altro esempio importante è quello di Eddie Redmayne, che nel 2021 ha espresso rimorso per aver interpretato Lili Elbe, una delle prime donne transgender a sottoporsi a un intervento di riassegnazione di genere, nel film The Danish Girl (2015).
Redmayne, che al tempo aveva ricevuto molti elogi per la sua interpretazione, ha dichiarato che ad oggi non accetterebbe di interpretare quel ruolo e che crede fermamente sia stato un errore. Le sue parole riflettono una crescente consapevolezza all’interno dell’industria sull’importanza della rappresentazione autentica.

Redmayne ha aggiunto di comprendere pienamente le critiche che gli sono state rivolte e ha espresso in diverse occasioni la necessità di attuare un cambiamento reale, che implica assicurarsi che uomini e donne trans possano davvero mettere piede nell’industria e trovare lavoro.
Le parole dell’attore evidenziano un problema fondamentale nel sistema di casting di Hollywood, dove spesso i ruoli trans vengono assegnati a interpreti cisgender, privando le persone trans di opportunità lavorative e, al contempo, perpetuando una rappresentazione non autentica delle loro vite.
Kristen Stewart
L’attrice bisessuale Kristen Stewart, candidata agli Oscar 2022 per il suo ruolo in Spencer, ha descritto il dibattito sulla rappresentazione Queer nel cinema come un argomento scivoloso. In un’intervista a Variety, la Stewart ha spiegato: non vorrei mai raccontare una storia che dovrebbe essere lasciata a chi ha vissuto davvero quell’esperienza.
Tuttavia, ha anche evidenziato la complessità del tema, aggiungendo che secondo questa regola, lei stessa, essendo bisessuale, non potrebbe mai più interpretare un personaggio etero. Si tratta evidentemente di una zona grigia.
Rupert Everett
In questo contesto si delinea una questione cruciale: molti attori apertamente Queer, soprattutto dagli anni Novanta in poi, una volta fatto coming out sono stati spesso confinati a ruoli legati alla loro sessualità, senza la possibilità di spaziare e interpretare personaggi etero o più complessi.
Un caso emblematico è quello di Rupert Everett, attore che, dopo aver dichiarato la propria omosessualità negli anni Ottanta, è rimasto ingabbiato in ruoli di personaggi gay, spesso stereotipati. Commentando la situazione, Everett ha espresso la sua frustrazione evidenziando che per anche per un attore gay sarebbe fantastico interpretare personaggi etero.
Le diverse opinioni
Troye Sivan, cantante e attore apertamente gay, ha recentemente sollevato il problema in modo diretto. Parlando del suo film Three Months, ha sottolineato quanto un casting autentico possa fare la differenza per gli spettatori Queer, cambiando il modo in cui si sentono rappresentati.
Prima di lui, Russell T. Davies, celebre regista e sceneggiatore di Queer as Folk e di It’s A Sin, ha deciso di rendere il casting per i suoi personaggi Queer autentico anche dietro la macchina da presa: tutti i ruoli LGBTQIA+ sono stati interpretati da attori della stessa comunità. Il regista ha spiegato che non si tratta di essere politicamente corretti, ma di autenticità in scena.
Il punto di vista di Davies, e di molti altri, è che la rappresentazione non è solo questione di talento attoriale, ma di rispetto e riconoscimento per le vite reali che quelle storie cercano di raccontare. Nel 2024, l’inclusività non dovrebbe più essere una concessione, ma una realtà concreta.
Jeremy Strong e The Apprentice
Jeremy Strong comprende e riconosce come valide le critiche riguardo agli attori eterosessuali che interpretano ruoli gay. L’attore ha recentemente espresso il suo punto di vista su un dibattito che dura ormai da anni, quello sull’opportunità di assegnare ruoli LGBTQIA+ a interpreti eterosessuali.
Strong ha interpretato Roy Cohn, il controverso mentore gay di Donald Trump, nel film The Apprentice, in uscita l’11 ottobre. Vincitore di un Golden Globe, Strong ha dichiarato che sarebbe giusto dare maggiore peso agli attori LGBTQIA+ nel casting per ruoli di personaggi LGBTQIA+.
In un’intervista al Los Angeles Times l’attore ha dichiarato: i grandi artisti, storicamente, sono stati capaci di trasformarsi e di interpretare ruoli lontani dalla loro natura. Questo è il compito di un attore: rappresentare qualcosa che non fa parte del proprio ambiente o esperienza naturale, anche se non penso sia indispensabile che i ruoli gay siano interpretati da attori gay, credo che si debba considerare maggiormente questo aspetto.

Il film The Apprentice, scritto da Gabe Sherman, narra l’ascesa di un giovane Donald Trump (interpretato da Sebastian Stan) grazie a un patto faustiano con Roy Cohn, avvocato di destra e influente figura politica.
Roy Cohn, la cui omosessualità non dichiarata era di dominio pubblico morì per complicazioni legate all’AIDS nel 1986.
Riguardo alla sua interpretazione, Strong ha aggiunto che chiunque interpreti un ruolo deve prenderlo con la stessa serietà con cui affronta la propria vitae che le persone, le loro lotte ed esperienze che vengono rappresentate non sono giocattoli.
Dopo la première mondiale del film al Festival di Cannes a Maggio, dove ha ricevuto una standing ovation di 11 minuti, la campagna di Donald Trump ha cercato di bloccarne la proiezione negli Stati Uniti, in vista delle elezioni presidenziali del 2024. Nonostante questo tentativo, il film è stato proiettato anche al Telluride Film Festival ad Agosto.
L’operazione di Ryan Murphy
Ryan Murphy ha intrapreso un’operazione rivoluzionaria e finora inedita su larga scala nell’industria dello spettacolo: garantire che l’identità di un attore o di un’attrice corrisponda a quella del personaggio che interpreta. Murphy ha deciso di portare avanti un cambiamento radicale, affrontando un problema che per anni ha dominato il mondo del cinema e della televisione: la discrepanza tra chi racconta una storia e chi ne vive davvero le esperienze.
Con le sue scelte di casting, Murphy rompe le convenzioni di Hollywood, decidendo che solo chi possiede l’identità, la cultura e l’esperienza di vita dei personaggi dovrebbe dar loro voce sullo schermo.
Questo approccio si è manifestato in serie come Pose, che non solo ha visto protagonisti attori e attrici transgender interpretare personaggi transgender, ma ha anche offerto loro ruoli di spicco, dando visibilità a una comunità spesso marginalizzata. L’audacia di Murphy non si ferma solo alla rappresentazione della comunità LGBTQIA+, ma si estende alla diversità etnica e culturale, cercando di garantire che le storie raccontate riflettano con precisione la realtà delle persone coinvolte.
Attraverso questa operazione, Murphy ha aperto una nuova via, dimostrando che l’inclusività non è solo un gesto simbolico o una moda passeggera, ma un impegno a lungo termine per offrire al pubblico una rappresentazione più veritiera e rispettosa. Il suo lavoro sta cambiando le regole del gioco, influenzando non solo il pubblico ma anche l’intera industria, che ora si trova di fronte a una sfida importante: rendere lo schermo un riflesso fedele della diversità umana in tutte le sue sfumature.
Questa scelta è un atto di resistenza contro una tradizione che spesso ha sminuito la complessità e la profondità delle identità marginalizzate, e Murphy sta dimostrando che, non solo è possibile fare diversamente, ma che è anche estremamente necessario per un’industria che vuole rimanere rilevante e attenta alle sensibilità del pubblico contemporaneo. La sua operazione non riguarda solo il casting, ma l’intero processo creativo, aprendo la strada a una narrazione più autentica e inclusiva.
Con The Boys in the Band, prodotto da Ryan Murphy, si tocca un nuovo capitolo significativo nella storia della rappresentazione queer a Hollywood. Questo film è il remake del celebre Festa per il compleanno del caro amico Harold, un classico teatrale. Nel remake, la scelta di Murphy è chiara e decisa: tutti i protagonisti sono interpretati da attori apertamente omosessuali. Una decisione che si riallaccia al principio di autenticità nella rappresentazione, e che rispecchia un cambiamento radicale rispetto al passato.

Ryan Murphy, con la sua visione artistica, ribadisce che il casting di attori queer per ruoli queer non è una questione di semplice politically correct, ma un atto di giustizia sociale. Il concetto alla base è che ognuno di noi non sceglie di essere quello che è, siamo il risultato di una combinazione complessa di esperienze, identità e desideri, che non dovrebbero mai essere sminuiti o delegittimati.
Proprio come oggi sarebbe impensabile accettare una blackface, ossia un attore bianco che si dipinge il viso per interpretare un personaggio nero, simbolo di un passato di stereotipi razzisti, allo stesso modo, per Murphy è cruciale che i personaggi omosessuali siano interpretati da attori omosessuali.
Sebbene l’orientamento sessuale non sia visibile come il colore della pelle, è una parte intrinseca dell’identità di una persona. Attraverso il casting di attori apertamente gay, The Boys in the Band non solo offre un’esperienza di rappresentazione autentica, ma restituisce dignità e complessità a personaggi spesso rappresentati in modo superficiale o stereotipato in passato.
Si tratta di una celebrazione della comunità Queer, ma anche di un messaggio potente all’industria cinematografica e televisiva: l’omosessualità, così come ogni altra identità, non è un tratto accessorio o marginale, ma parte integrante della narrazione e del vissuto umano che merita di essere raccontata con rispetto e accuratezza.
La scelta di Murphy non è solo una questione di casting, ma una presa di posizione culturale. È il riconoscimento del fatto che la rappresentazione conta, e che quando un attore Queer interpreta un ruolo queer, porta con sé un bagaglio di esperienze vissute che arricchiscono la performance e la rendono più vera. In un mondo dove l’inclusività e la diversità sono ancora in evoluzione, The Boys in the Band si erge come un esempio di come il cinema possa non solo intrattenere, ma anche educare e contribuire a un cambiamento sociale.
Il cuore profondamente politico del dibattito
Per molti, la recitazione è finzione, e il lavoro dell’attore consiste nel replicare una realtà anche quando questa non riflette la sua esperienza personale. Spesso, anche tra la comunità Queer, l’entusiasmo di vedersi finalmente rappresentati sullo schermo oscura la consapevolezza di chi sta interpretando quei ruoli. Ci affidiamo alla magia dell’arte attoriale, al talento di interpreti capaci di dar corpo e voce a vite lontane dalla loro.
Ma il cuore del dibattito non è solo artistico: è profondamente politico.
Dal 2005, con Brokeback Mountain, su 35 attori nominati agli Oscar per ruoli LGBTQIA+, nessuno era apertamente queer, fatta eccezione per Ian McKellen, nominato nel 1998 per Gods and Monsters.
Questo solleva domande importanti: dove sono gli attori e le attrici Queer? Come possiamo parlare di inclusività, se i ruoli di personaggi LGBTQIA+ continuano a essere assegnati a interpreti eterosessuali e cisgender? E soprattutto, è giusto ridurre l’esperienza Queer a una semplice performance, quando per molti è una lotta quotidiana per la visibilità e l’accettazione?
Riequilibrare l’industria
Il punto di rottura del dibattito sta proprio qui: mentre agli attori eterosessuali viene data la possibilità di interpretare una vasta gamma di ruoli, inclusi quelli Queer, gli attori LGBTQIA+ spesso si vedono limitati, sia in termini di visibilità che di opportunità di lavoro. Anche quando raccontano storie che appartengono alla Comunità Queer, spesso vengono superati da attori cis-het, che, avendo già maggiore visibilità, trovano ulteriori occasioni di successo.
La questione non è tanto quella di stabilire un’etichetta rigida che determini chi può interpretare cosa, ma di riequilibrare un’industria che storicamente ha offerto molte meno opportunità agli attori Queer.
Come ha sottolineato Jim Parsons, attore dichiaratamente gay, la vera battaglia è quella di garantire che tutti i ruoli siano disponibili per tutti gli attori. Parsons ha anche evidenziato l’importanza di rappresentare i personaggi LGBTQIA+ come individui a tutto tondo, dotati di complessità e profondità.
Un altro aspetto cruciale è che l’identità queer non dovrebbe essere ridotta a una semplice etichetta, nemmeno dovrebbe diventare l’unico elemento distintivo di un personaggio o di un attore. Le persone Queer, come ogni altro individuo, sono composte da una miriade di sfumature, esperienze e possibilità, e la loro rappresentazione sullo schermo dovrebbe riflettere questa complessità. In un mondo ideale, le identità Queer dovrebbero essere celebrate, senza però diventare l’unico parametro attraverso cui un attore o un personaggio viene definito.
Correggere questo squilibrio richiede un cambio di mentalità nell’industria dell’intrattenimento. Deve esserci maggiore parità nelle opportunità offerte agli attori Queer, sia che si tratti di interpretare personaggi etero che Queer. Solo così si potrà raggiungere una vera inclusività, dove il talento di un attore e la qualità della sua performance siano le uniche cose che contano, indipendentemente dalla sua identità di genere o orientamento sessuale.
Il pericolo di messaggi fuorvianti
Risulta evidente la necessità di un cambiamento di mentalità nel mondo dello spettacolo, dove la coscienza sociale e l’attenzione alla giustizia rappresentativa per fortuna stanno diventando sempre più importanti. Non si tratta più solo di fare un buon lavoro attoriale, ma di riconoscere che la rappresentazione ha un impatto reale sulla vita delle persone.
Ruoli che toccano temi di identità di genere, sessualità e marginalizzazione non sono semplici interpretazioni: sono storie di vite vissute e di lotte quotidiane. Permettere alle persone direttamente coinvolte di raccontare quelle storie non è solo una questione di autenticità, ma anche di dignità e rispetto per la comunità Queer.
Questo dibattito solleva anche una domanda importante: come mai ci sono così pochi attori e attrici trans e Queer a disposizione per questi ruoli? Il problema non è solo la mancanza di visibilità, ma anche l’accesso limitato a opportunità formative e professionali per le persone Queer, soprattutto quelle trans. Gli studios dovrebbero impegnarsi a creare un ambiente inclusivo che permetta agli attori LGBTQIA+ di emergere e prosperare, superando l’idea che solo attori affermati possano interpretare ruoli di grande rilievo. Attraverso un casting autentico, il mondo dell’intrattenimento può diventare un luogo più giusto, dove le storie di ogni individuo vengono raccontate da chi ha realmente vissuto quelle esperienze.
La rappresentazione transgender, in particolare, presenta delle complessità profonde, poiché esiste il rischio concreto di ridurre l’essere trans a un semplice travestimento, una sorta di spettacolo in cui l’attore o l’attrice deve solo indossare un costume convincente per apparire credibile. Questo tipo di approccio rischia di svilire l’identità trans e trasmettere messaggi pericolosi e fuorvianti. Come ha spiegato Megan Townsend, analista presso l’organizzazione GLAAD Media: quando ciò accade, lo spettatore sta ricevendo due messaggi sbagliati. Il primo è che essere trans è una performance, un ruolo da recitare; il secondo è che, sotto questa messa in scena, una donna trans è semplicemente un uomo travestito che sta fingendo di essere qualcos’altro.”
Questa problematica non solo compromette l’autenticità delle rappresentazioni, ma perpetua anche stereotipi dannosi che rafforzano l’idea che l’identità di genere delle persone trans sia fittizia o, peggio, una bugia. Affidare ruoli transgender a attori cisgender non fa altro che alimentare questo tipo di pregiudizio, riducendo esperienze complesse e reali a una mera simulazione.
Le due facce della medaglia
Questa situazione presenta un altro effetto collaterale che colpisce tanto dentro quanto fuori dall’industria cinematografica: la crescente preoccupazione che agli attori Queer verranno assegnati esclusivamente ruoli queer. Questo fenomeno rischia di creare una nuova forma di ghettizzazione all’interno di Hollywood e del mondo dell’intrattenimento in generale, amplificando un’ulteriore divisione tra ciò che è considerato normale e ciò che è etichettato come altro.
In un contesto in cui l’arte dovrebbe essere libera da confini e definizioni rigide, relegare gli attori Queer solo a ruoli che riflettono la loro identità personale potrebbe limitare le loro opportunità di crescita artistica. L’idea che gli attori LGBTQIA+ possano interpretare solo personaggi che rispecchiano la loro sessualità o identità di genere contribuisce a rinforzare un sistema di etichette che la comunità Queer cerca di superare.
Al contempo, emerge il rischio opposto: il desiderio di evitare ghettizzazioni potrebbe spingere l’industria a tornare a dare ruoli LGBTQIA+ esclusivamente a interpreti cis-het, alimentando nuovamente la falsa idea che l’identità Queer possa essere replicata da chiunque, senza considerare il valore dell’autenticità. Questo genera una tensione tra la necessità di includere attori Queer nei ruoli LGBTQIA+ e il desiderio di non limitarli esclusivamente a tali ruoli.
In definitiva, la sfida è trovare un equilibrio che permetta agli attori queer di esprimersi liberamente, sia in ruoli che riflettono le loro esperienze personali, sia in quelli che esplorano altre sfumature della condizione umana, senza che la loro sessualità o identità di genere diventi un vincolo.
Solo allora si potrà parlare di una vera inclusività, dove ogni attore è giudicato per il proprio talento e la propria capacità di trasmettere emozioni autentiche, senza vincoli di etichettatura.