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La stanza accanto, l’analisi del film di Almodovar
La stanza accanto, ultimo lungometraggio di Pedro Almodovar, è uscito nei cinema italiani lo scorso 5 dicembre: lo abbiamo visto e analizzato per voi.
No, questa non è una recensione (per quella potete cliccare qui). Quella che state per leggere è un’analisi di La stanza accanto, ultimo film girato da Pedro Almodovar.
Partiamo subito con il chiarire una questione: quello del regista madrileno è un film girato a Hollywood e più hollywoodiano dei film che lo hanno preceduto. È un film che ha alcuni difetti ma anche alcune virtù.
La stanza accanto: il tema della fine
Il tema cardine dell’ultima opera di Almodovar è quello della fine: non solo la fine intesa come morte – che è il tema particolare del film – ma la fine di tutte le cose. Anche delle relazioni d’amore.
A questo tema fa capo, enorme e controverso, il tema del fine vita e, nello specifico, dell’eutanasia: questa è infatti è il desiderio del personaggio di Martha (Tilda Swinton), ex fotoreporter e donna lucida, con le idee chiarissime su quello che vuole per la sua vita. E per la sua morte.
Martha, infatti, come si direbbe con un odioso eufemismo, è malata di un “male incurabile” e condannata a un’esistenza a scadenza a breve termine, nel segno del dolore e della dipendenza da farmaci. E decide – giustamente o meno, non sta allo spettatore giudicarla – di mettere fine con dignità alla propria vita.
Qui si manifesta il grande pregio del film: nel modo nel quale Almodovar tratta il tema. Mai pietistico o giudicante, sempre sereno, consapevole quasi distaccato. In altre parole, in modo “normale”, forse rivelando anche il pensiero (certamente non sfavorevole) del regista stesso. Come dice Martha stessa: “Non credevo che la morte potesse essere tanto leggera”.
Il personaggio interpretato da Swinton, poi, rivendica un diritto che appartiene a tutti noi: quello di “prendersi prima che la morte ci prenda”.
La vita e la morte, in questo film, vengono raccontati come un ciclo, un ouroburos che si mangia la coda all’infinito: perché dove c’è una fine c’è un nuovo inizio. Come accade anche nel film.
Un peccato veniale: la verbosità
Che questo film sia fatto di dialoghi è inevitabile: i personaggi in scena sono quasi sempre le due protagoniste, che si scambiano opinioni e ricordi sulla vita e sulla fine della vita.
Per bocca di Martha/Tilda Swinton, Almodovar lancia alcuni messaggi al pubblico. Come dice Martha: “Ci sono molti modi per vivere dentro una tragedia”. Si può anche decidere, per esempio, come uscirne. Martha deciderà di uscirne con classe, come ha vissuto, ma non da sola.
Al personaggio di Damian Cunningham (John Turturro), ex compagno di entrambe, vengono invece affidati predicozzi in chiave ambientalista e politica – si riferisce all’ascesa dell’estrema destra – che poco hanno a che fare con la materia del film. Condivisibilissimi, per carità, ma del tutto fuoriluogo.
Immagini bellissime
Ciò che ha infastidito molti spettatori è che un regista possa trattare il tema della morte servendosi di una fotografia dai colori sgargianti, dissonante. Una fotografia che abbiamo imparato a conoscere soprattutto nei film più recenti del cineasta spagnolo (tra tutti Volver e Madres Paralelas), animata da improvvisi tocchi di rosso e di blu.
Che il film sia esteticamente così bello e cromaticamente così ben abbinato, per alcuni, è inaccettabile, ma a nostro avviso l’estetica impattante del film punta a creare ulteriore contrasto, oltre a essere in linea con i requisiti richiesti ai film che vuole essere “hollywoodiano”.
I rimandi alla pittura di Edward Hopper sono evidenti: il corpo steso sul lettino prendisole di Tilda Swinton diventa il corrispettivo carnale della donna ritratta nel quadro di Hopper appeso su una parete nella casa in cui Martha e Ingrid (Julianne Moore) soggiornano.
Swinton e Moore: donne almodovariane
Il viso ieratico, quasi extraterrestre, di Tilda Swinton, accostato al volto intenso e imperfetto di Julianne Moore rimandano a quelli di tante donne apparse in passato nei film del regista spagnolo: da Carmen Maura a Victoria Abril, da Julieta Serrano a Marisa Paredes.
Sono loro i volti che mancavano alla sterminata collezione delle muse almodovariane che il cinema ricorda: tutte meravigliosamente uniche, mai perfette, sempre inconfondibili.
La fine
La storia si compie secondo i versi di Gente di Dublino, l’opera di James Joyce che Martha vuole vedere in televisione prima di morire: “La neve cade sopra tutti i vivi e i morti”. Titoli di coda.