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Titane, la recensione: l’amore nella distruzione e nel caos
Tra identità che mutano, carne e metallo, Titane è lì dove nel caos nascono l’amore e l’umanità più puri, ben oltre l’ordine delle regole e del “giusto”.
Palma d’Oro al Festival di Cannes 2021, Titane è la seconda opera di Julia Ducournau. La regista francese, già con la sua opera prima Raw (2016), si era distinta per un’estetica viscerale e raffinata, particolarmente legata al body horror.
Ducournau e i suoi personaggi esplorano le mutazioni psicologiche e fisiche dell’essere umano, mettendo in scena realtà verosimili contaminate da una sorta di surrealismo sociale e simbolico. La regista, infatti, ha sempre affrontato audacemente le questioni sociali, con un’identità tutta sua. Sia in Raw che in Titane, si serve di un body horror estremo, ma mai spettacolarizzante, che diventa campo di riflessione delle conseguenze di desideri repressi, crisi d’identità e omologazione.
Titane, la trama
Da bambina, Alexia rimane vittima di un grave incidente d’auto, a seguito del quale, le viene impiantata una placca di titanio nel cranio. Da quel momento, carne e metallo si fondono in un corpo ibrido che rifiuta empatia e affetto. Alexia sviluppa un tipo di erotismo per il metallo, più nel dettaglio per le macchine, tant’è che rimane incinta dopo un rapporto con una Cadillac. Le sue pulsioni e la sua mancanza di empatia, le fanno compiere gesti estremi, per i quali è costretta a fuggire e cambiare identità. Alexia assume l’identità di Adrien Legrand, un bambino scomparso anni prima, spacciandosi per lui.
Così, la sua vita si intreccerà con quella del padre di Adrien, Vincent, un pompiere tormentato. I due svilupperanno un rapporto inizialmente ambiguo, che si rivelerà però, nella sua “incompatibilità”, l’unico fulcro d’amore autentico.

L’identità fluida
In Titane, l’identità è il tema centrale. Questa viene affrontata in modo complesso, attraverso la mutazione del corpo e la lotta continua tra l’io e le imposizioni sociali. Alexia è l’emblema di un’identità ibrida, spezzata e compromessa, che sfida ogni principio morale e biologico. È un tempio di violenza, desiderio, pulsione e autodistruzione, eccesso puro. Il suo corpo muta di continuo ed è privo di ogni emozione o empatia umana.
D’altra parte, Vincent, un uomo frammentato che non ha più nulla. Simboleggia perfettamente la mascolinità ancorata, l’autorità e il controllo tossico. È un uomo che fatica ad accettare il declino del proprio corpo. Quindi, resiste al cambiamento tentando di mantenere un potere che sente minacciato. Un bisogno di controllo che è sintomo di una profonda vulnerabilità, ossia il timore del cambiamento e della solitudine. Fragilità che si manifesta sia nella mancanza di un affetto (non tanto del figlio di per sé), che nel corpo in decadimento.
Anche se in modi opposti, l’una distruggendolo e negandolo, e l’altro proteggendolo disperatamente, sia Alexia che Vincent vivono un conflitto con il proprio corpo. E indubbiamente con la propria identità, che non corrisponde più all’immagine imposta dalla società.

Titane e il paradosso del contro natura
Da Raw a Titane, Julia Ducournau indaga cosa significhi davvero “contro natura”. Facendo un discorso più ampio, possiamo comprendere come nella visione della regista sia chiara una verità: l’ibrido, l’innaturale e il mostruoso non rappresentano una minaccia in sé, ma lo diventano quando vengono negati. Le trasformazioni, la fluidità e le pulsioni del diverso sono devianze da contenere poiché non corrispondono a nessuna norma morale, sociale e biologica. Ed è proprio questo pensiero che porta a conseguenze tragiche, è l’imposizione di un “giusto” e un “sbagliato” che genera violenza e sofferenza. Dunque, cos’è davvero contro natura? Essere ciò che siamo, per quanto fuori schema, o l’adattamento al fine di soddisfare il “giusto” ideale?

Corpo, metallo, rosa
La regia di Ducournau è carnale e violenta ma profondamente sensibile, motivo per cui ogni volta che può, la regista lascia frammenti di umanità. Il body horror e il bizzarro sono un pretesto per esplorare temi profondi e complessi che ci lasciano disorientati e stimolano la riflessione. E negli ultimi tempi, questa scelta sembra la prediletta dalle registe francesi, basti pensare anche a Coralie Fargeat. Ed è proprio in questa New Wave che il corpo diventa protagonista di espressione, conflitto e brama.
Agathe Rousselle è al suo debutto e interpreta un’Alexia fredda, insensibile, inumana, che però conserva in sé ancora un frammento umano – anche se lo ripudia. Vincent Lindon interpreta un uomo stanco e privo di tutto, dando corpo magistralmente a una mascolinità imposta.
A tal proposito, la fotografia di Ruben Impens inonda gli ambienti e avvolge i corpi di luce fredde, metalliche, in cui subentra un rosa saturo innaturale. Il colore diventa un linguaggio vero e proprio, non è un capriccio estetico ma una voce. È presente nel bagno di Vincent e lo illumina, è tra i corpi dei pompieri che danzano durante la festa. È una dolcezza, una femminilità e un’emotività negata. Così, la regista destruttura il genere e lascia che i corpi vibrino di tensione e sospensione tra apparenza e desiderio.

L’amore ritrovato
Julia Ducournau conferma la sua autorialità di qualità con la sua visione personale, proseguendo un percorso coerente in cui esplora temi forti attraverso rappresentazioni horror, grottesche e surreali.
Paradossalmente, è proprio nel contro natura che nasce l’amore più autentico. È qui che germoglia l’affetto mancato e si ritrova un’emotività persa, o forse mai posseduta. Lì dove tutto è caos e sembra impossibile, è tra due corpi lacerati e alla deriva che avviene un’unione. Non è un amore scelto, ma un amore trovato e riscritto. Non importa che Alexia non sia davvero Adrien e non importa che Vincent non sia il vero padre di Alexia. In Titane, è proprio nella distruzione più assoluta che si trova la tenerezza. Non c’è bisogno di definizione o natura, perché l’amore è ovunque.
